Il commissario bacia bene: un noir a sfondo erotico completamente inedito
IL COMMISSARIO BACIA BENE * (un racconto noir-erotico)
Gisella Morini ha un nome di battesimo orribile, almeno questa è la mia opinione. Ma bacia benissimo. E non è brava solo in questo. L’ho pensato la prima volta che ha poggiato la sua bocca sulla mia e, naturalmente, lo penso ancora. Mi piace il suo sapore di birra e tabacco, di metallo e di rugiada. Mi ha subito affascinato quello strano intreccio di intensità femminile e ruvidezza maschile che immediatamente rimanda e poi conferma, come nel nostro caso, a un contatto diretto. Molto diretto.
Ovviamente tutte queste riflessioni sono avvenute dopo. Dopo il delitto, l’indagine e quello che ne è seguito.
Si è materializzata nel salone quando ormai pensavo che non ne avrei visti altri. Di poliziotti, intendo. La casa ne era piena, in divisa, senza divisa, con giacche improbabili, con tute da esplorazione lunare, con mascherine, con guanti di lattice, con strane mostrine. Ma lei era diversa, fin dal primo sguardo.
L’ho guardata. Indossava un paio di jeans aderenti, una maglietta nera sotto un blazer blu. Seni non grandi ma eretti che ho immaginato sodi, e, cosa più sorprendente di tutte per un poliziotto, un paio di vezzosi (Dio, che aggettivo, ma non saprei trovarne un altro) sandali col tacco alto. Lo penso spesso anche quando vedo le poliziotte nei film e nelle serie tv, sempre con tacchi da paura. Ma se devono inseguire un delinquente? Ma poi ho capito che quelle come Gisella non inseguono, ci mandano gli altri. Eppure si è mossa leggera e rapida, parlando a questo e a quello fino ad arrivare davanti a noi tre, seduti sul divano, vicini, quasi stretti, sebbene i nostri sentimenti reciproci andassero dalla mal sopportazione all’odio duro e puro.
Quello dove ci hanno sistemati, noi sopravvissuti della famiglia Belmondo, è il grande salone entrando a destra. Questa è la grande villa di mio padre, sulla collina che domina la città, la collina dei ricchi, dove il sole batte sempre, dall’alba al tramonto. L’ho sempre considerata una metafora. Veramente, “era” la grande villa di mio padre. Perché mio padre è di là nel suo studio, con il cranio sfondato da due colpi inferti con violenza, “con un oggetto dalla forma appuntita” ho sentito dire al medico legale, in entrambi i bulbi oculari, seduto come un manichino spezzato sulla sua amata poltrona del settecento francese. Valore 25 mila euro. Speriamo che si possano togliere le macchie di sangue, dopo. Così per prima cosa la vendiamo, nessuno di noi la ama, come tutti gli oggetti a lui appartenuti. Però, a ripensarci, magari con le macchie vale pure di più, per qualche collezionista amante dell’orrido o del “vissuto” che gode nell’avere attorno oggetti di proprietà di morti ammazzati, in questo caso addirittura, materialmente, il luogo del delitto. Al limite si potrebbero spacciare le tracce ematiche come appartenute a un nobile giustiziato sul posto, sulla poltrona, senza trasferimento in piazza e senza ricorrere alla ghigliottina. Era la rivoluzione, bellezza. Così si alza il prezzo. Vi sembro crudele? E’ mio padre, quell’essere immondo che per fortuna non c’è più, se non come pezzo di carne che deperisce bello studio, che ci ha resi così, a me ai miei due fratelli. Condivido con loro solo le umiliazioni, le vessazioni e la violenza, verbale e qualche volta anche fisica, di quell’uomo che, da poco dopo l’età della comprensione, abbiamo fatto molta fatica a chiamare “padre”.
“Dunque questo è un classico caso di delitto della stanza chiusa” dopo essersi presentata, il commissario Gisella Morini si è lasciata cadere sul divano gemello di fronte al nostro, accavallando le gambe. Belle, senza dubbio, lo si capiva anche con i pantaloni.
“Anzi, per essere corretti, della casa chiusa, nessun riferimento – ha sorriso della sua battuta -. Un omicidio al di qua delle porte rigorosamente sbarrate dall’interno e con l’allarme inserito da dentro. Il personale di servizio di notte dorme nella dependance e può entrare solo se qualcuno, da qui, disinserisce l’allarme”.
“Una fissazione di mio padre, non so cosa temesse dalla servitù, sono con noi da molti anni” l’ha interrotta mio fratello Carlo.
Il commissario Gisella Morini ha sorriso. Denti candidi, perfetti.
“Eh già, giusto, timori infondati, la servitù – ha calcato sulla parola, prendendo per il culo mio fratello che l’aveva usata – non c’entra, dopotutto, visto che a ucciderlo è stato uno che stava qui dentro… uno di voi”.
“Io non le permetto…” mio fratello Gianni ha cercato di alzarsi di scatto dal divano, ma è stato bloccato dal suo cronico mal di schiena. Un dolore improvviso alla colonna vertebrale, perennemente gravata di qualche acciacco. E’ ricascato all’indietro. Goffamente. E si è toccato il fianco sinistro.
“Abbiamo molti amici, molto in alto” ha gracchiato mio fratello Carlo, che quando si altera, ha una voce orribile, fastidiosissima, da voce bianca invecchiata.
In quel momento un cellulare ha trillato. Il commissario ne ha estratto uno dalla tasca interna del blazer. “Morini. Ah signor questore…Certo, massima rapidità e discrezione. Come sempre, non si preoccupi”. Terminata la comunicazione senza salutare, è tornata a fissarci con i suoi occhi, che, ho notato il quel momento, sono di un blu da profondità marina. Splendidi. Mi è tornata alla memoria quella canzone “un tuffo dove l’acqua è più blu, niente di più”.
“Io non ho amicizie altolocate, invece, però ho dieci casi di omicidio risolti su dieci, negli ultimi due anni. Quindi se uno di voi vuole confessare mi risparmiate queste poche ore di lavoro, tanto lo becco comunque”.
Nessuno di noi ha aperto bocca.
“Come volete” si è alzata, fluida, quindi si è incamminata verso lo scalone che porta agli altri piani della villa. Al primo ci sono le nostre camere e tutte le altre, pensate per ospiti che non sono mai venuti. Al secondo la zona inviolabile, il Sancta Sanctorum di mio padre. Si è tolta la giacca e l’ha passata a un agente. Non ho potuto fare a meno di notarle il culo. Svettante, superbo.
“Avete già perquisito gli altri piani?” l’ho sentita chiedere a qualcuno.
“Sì, dottore, niente”.
“Adesso vediamo questo niente”.
Sono passate quai due ore, durante le quali ci hanno autorizzati a muoverci per andare in bagno. Gianni, che è anziano non solo per la voce, e comunque è invecchiato male, c’è dovuto andare due volte.
“E voi la chiamate perquisizione?” l’ho sentita domandare, ma più che una domanda era un rimprovero. Dal rumore dei suoi tacchi era chiaro che stava scendendo le scale. Aveva concluso.
E’ comparsa sulla porta del salone con due sacchetti di plastica, simili a quelli che si usano per surgelare gli alimenti. Magari sono proprio gli stessi, chissà. Si è di nuovo avvicinata e si è tolta i guanti di lattice passandoli all’agente a cui aveva consegnato la giacca e ricevendo questa in cambio.
Ha spiegato (non a noi), dando per scontato che lo sapessimo, ma a tutti gli altri: “Queste vecchie case hanno dei nascondigli segreti, spesso ben occultati. Ragazzi sveglia, bisogna cercare meglio nelle dimore dei signori. La cara vecchia borghesia, piccina o grande che sia, nasconde sempre misteri, passaggi segreti, doppi fondi. Ecco cosa abbiamo qui – ha alzato il sacchetto nella mano destra – un soprammobile a forma di prisma evidentemente insanguinato, trovato nel nascondiglio a muro del signor Carlo, mentre qui – ha indicato l’altro involucro – abbiamo uno straccio insanguinato, infilato nel nascondiglio del signor Gianni”.
Ha passato i sacchetti a uno dei suoi collaboratori.
“E qui abbiamo due assassini” ha indicato i miei due fratelli. Mentre lo diceva due poliziotti li hanno ammanettati dietro la schiena, malgrado le proteste dei due. Ho sentito Gianni urlare, mentre oltrepassava il portone: “Lei non sa chi sono io”. Un classico da parte sua, quella frase, una sceneggiatura già scritta. L’ultima banalità della sua esistenza banale che mi toccava ascoltare.
Se ne sono andati tutti. La sera è scesa finalmente a chiudere una giornata lunga e faticosa e voglio farmi una doccia. Passo davanti allo studio di mio padre. La porta è sigillata con del nastro isolante grigio e rosso e c’è un foglio con le scritte piccole e lo stemma dello stato. Forse lo farò murare, quando me lo permetteranno. L’avvocato, anzi gli avvocati sono riusciti a strappare che venissero chiuse solo la scena del crimine e le stanze dei miei due fratelli dove erano state ritrovate le prove dell’omicidio. Così non ho dovuto lasciare la casa. Magari qualcun altro avrebbe dei problemi a dormire dove si è verificato un evento sanguinoso, ma non io, grazie a mio padre ho avuto il gran dono del cinismo. Sto per salire le scale, quando sento, chiarissimo lo schiocco di un fiammifero da cucina che si accende. Nel silenzio è un rumore assordante. Mi volto e vedo, laggiù nel salone, un filo di fumo che sale dal divano.
La trovo lì con un mezzo sigaro toscano in bocca. Il blazer è appoggiato sul tavolinetto indiano (sparirà anche questo) con la Beretta 98 FS d’ordinanza chiusa in una fondina che aveva attaccata alla cintura. C’è anche una bottiglia di birra della marca prediletta del mio defunto padre bevuta per metà e a qualche stuzzichino. Ha fatto come a casa sua. Forse la considera così.
“Siediti qui” mi fa cenno di andare vicino a lei.
Quando siamo accanto mi accarezza i capelli poi la sento premere la mano sulla mia nuca.
“Non mi merito un premio?” avvicina il suo viso al mio e quasi senza accorgermene mi trovo la sua lingua in bocca. E’ un bacio lungo. All’inizio non ricambio, ma poi mi piace e continuo. Si stacca per prima lei.
“Premio per cosa?” le chiedo.
Lei riprende il sigaro che ha poggiato sul pesante portacenere di Murano e tira una boccata.
“Per averti salvato la ghirba”.
“Non capisco, mi scusi”. Preferisco, ma non so ancora per quando, continuare a darle del lei.
“Capisci, capisci. Io capisco invece che tu voglia recitare ancora per poco una parte. Mi sta bene, mi stuzzica anche. Ma ti avverto, in futuro cerca di non mentirmi mai. Ci metto un attimo a scoprire i bugiardi. Ho un dono”.
Mi ha poggiato una mano sulla coscia. “Mi piaci e mi piace il tuo stile. Hai ucciso tuo padre con quel fermacarte, due colpi, quando ne sarebbe bastato uno, perché volevi far sembrare che gli assassini fossero due, uniti da un patto scellerato che prevedeva che entrambi si macchiassero dell’omicidio. Hai nascosto l’arma del delitto e il panno insanguinato con cui hai afferrato il fermacarte nelle stanze dei tuoi fratelli. Però hai voluto strafare. Hai voluto anche lasciare le loro impronte. Li hai drogati vero? Con qualcosa che non rimane a eventuali analisi e hai premuto le loro mani sull’oggetto. E qui arriva l’errore. Non basta mettere tre impronte e via. Si vedeva ad occhio nudo – o almeno l’ho visto io – che i tuoi fratelli non avrebbero mai impugnato l’arma del delitto in quel modo. Le impronte sarebbero risultate incongrue. Ormai ci sono tecniche che non t’immagini neanche. Qualcuno si sarebbe domandato il perché, qualcun altro avrebbe capito che era un tentativo di depistaggio e sarebbero risaliti a te. Non c’era nessun altro qui”. Ha concluso abbracciando la casa con le mani.
Ho taciuto ancora.
“Meno male che quei deficienti dei miei uomini non hanno trovato nulla, altrimenti sarebbe stata dura rivoltare la frittata”.
“Rivoltare?”.
“Cancellare le impronte. Semplice. Scusa, ma perché volevi stravincere? Bastava mettere in camera di uno il panno, come hai fatto e nell’altro l’arma del delitto, anche senza impronte. Sarebbe stato ovvio che le avessero cancellate”.
“E allora perché non disfarsi addirittura dell’arma del delitto?” chiedo.
“Non c’è stato tempo, si sono spaventati, oppure volevano tenere un pegno del loro accordo omicida che li legasse per sempre. Questa è la tesi che ho suggerito al magistrato. Mi piace un sacco, funziona, i media ci marceranno e i giudici si convinceranno facilmente. Gli assassini non professionisti fanno tanti errori. Qui le incongruenze non contano e le giustificazioni possono essere molte. Ma non ci riguardano più. Ora basta, vieni qui, baciami. Mi sono trattenuta a stento dal farlo quando sono entrata. L’ho desiderato dalla prima occhiata”.
Ora mi piace anche di più.
“L’ho ucciso perché…”
“Non mi interessa. Avrai avuto le tue buone ragioni”.
Si alza in piedi si disfa dei vestiti con deliberata lentezza, assaporando l’effetto che mi fa. Si diverte alla mia evidente reazione di sorpresa quando le vedo il ridottissimo perizoma di seta gialla che porta. Ride togliendosi quello e il reggiseno (no, non sono per niente piccole le sue tette) ed è nuda davanti a me.
“Pensavi che i poliziotti non portassero biancheria intima di questo tipo? Adesso spogliati tu”.
Abbasso i pantaloni e mi sfilo la maglietta. Non ho niente sotto.
“Ah, giriamo nudi?” mi sfotte.
“E’ stato un risveglio brusco”.
“Ti prometto che quello di domani sarà dolcissimo”.
Quando comincia a succhiarmi i capezzoli, penso che non sarà l’unico. Ah, neanche le mie tette sono piccole. E sono ancora sode. A cinquant’anni sono ancora una strafiga.
* racconto inedito di Roberto Perrone, tutti i diritti riservati, vietata la riproduzione